LIEVITO DI FRATERNITÀ, SEMPRE E DOVUNQUE

 di Don Luca Gallina

1. Condivisione della vita di fede

Si legge nella Sacramentum caritatis: “Ogni uomo porta in se l’insopprimibile desiderio della verità ultima e definitiva. Per questo il Signore Gesù, “via verità e vita” (Gv 14, 6), si rivolge al cuore anelante dell’uomo, che si sente pellegrino e assetato, al cuore che sospira verso la fonte della vita, al cuore mendicante della Verità. Gesù Cristo, infatti, è la Verità fatta Persona che attira a sé il mondo.

Noi non possiamo vincere la lontananza del nostro cuore da Cristo se non ci rivolgiamo a Lui con «cuore anelante», se non parte da noi un grido, una domanda a Cristo perché faccia risplendere il suo volto, la sua verità davanti ai nostri occhi, perché tutti noi, ognuno di noi nel suo intimo possa essere attratto da Lui.

Ma non possiamo superare neanche l’estraneità che c’è fra di noi, non possiamo neanche stare insieme, senza prendere sul serio il nostro bisogno umano. Ciò che ci unisce, infatti, gli uni agli altri è innanzitutto questo bisogno di senso che ci costituisce e ci strugge intimamente. Ci mettiamo insieme perché abbiamo coscienza di avere un bisogno così grande che da soli non possiamo soddisfarlo. Don Luigi Giussani, rispondendo ad una domanda che gli era stata posta, ha detto: «È una bella presunzione pretendere di stare nella compagnia senza vivere sul serio i bisogni della nostra umanità».

Nel clima culturale in cui viviamo tutto questo è particolarmente importante, perché non c’è via di mezzo. O la fede diviene estremamente consapevole e perciò estremamente amata come risposta alla propria umanità, al proprio bisogno umano oppure Cristo comincerà ad essere sempre più lontano dal nostro cuore.

Così pure noi potremo stare l’uno accanto all’altro, potremo continuare anche a fare insieme delle belle iniziative pastorali; ma ciò non basterà a vincere l’estraneità fra di noi. La prima modalità, infatti, con cui noi ci allontaniamo dagli altri è l’allontanarci da noi stessi.

Giovanni Paolo II ha detto: «Non ci sarà fedeltà […] se non si troverà nel cuore dell’uomo una domanda per la quale solo Dio […] è la risposta». Non ci sarà, dunque, fedeltà fra di noi se non si vive e condivide quella domanda alla quale solo Lui è la risposta, e se non si condivide la gioia della scoperta della corrispondenza imprevedibile e totale che c’è tra Cristo e la domanda di senso che ci portiamo dentro.

Per questo la prima condizione per stare insieme è la condivisione della vita di fede. Altrimenti o si va via o, se si resta, si vive da estranei. Si resta veramente insieme solo quando si riconosce che siamo bisognosi gli uni degli altri.

Spesso essere bisognosi ci sembra una debolezza da nascondere, da nascondere perfino a noi stessi, quasi da vergognarci, tanto è vero che la nostra condizione di bisognosi, di mendicanti, la consideriamo una tappa da superare. Dietro questa concezione, dietro questo sguardo su di noi si nasconde la mentalità di tutti: il sogno non confessato di essere autonomi, di essere autosufficienti. Si capisce allora, perché Cristo resta lontano dal nostro cuore. Il vero protagonista della storia, invece, – diceva ancora don Giussani – è il mendicante: «Cristo mendicante del cuore dell’uomo e il cuore dell’uomo mendicante di Cristo».

Ecco ciò che ci unisce fra di noi, e che unisce noi a tutti gli uomini: è la coscienza di essere insieme mendicanti di Cristo, cioè l’essere mendicanti di senso!

La personalità del cristiano, infatti, è generata continuamente dal miracolo della vita comune. Scriveva san Cirillo d’Alessandria:


 

Per fonderci nell’unità di Dio e fra di noi, benché abbiamo ognuno una personalità distinta, il Figlio unico ha inventato un mezzo meraviglioso: per mezzo di un sol corpo, il Suo, santifica i fedeli nella comunione mistica, facendoli un sol corpo con se stesso e tra di loro. Nessuna divisione può sopravvenire all’interno del Cristo. Uniti tutti con l’unico Cristo per mezzo del suo proprio corpo, ricevendolo tutti, Lui uno e indivisibile, nei nostri corpi, noi siamo le membra di questo corpo unico, ed egli è per noi così il vincolo dell’unità.

Noi siamo tutti, a causa della natura, rinchiusi gli uni e gli altri nelle nostre individualità. Ma in un altro modo, tutti insieme, siamo riuniti. Divisi in qualche maniera in personalità ben definite, per cui uno è Pietro, o Giovanni, o Tommaso, o Matteo, siamo come fusi in un sol corpo nel Cristo, nutrendoci di una sola carne. Un solo Spirito ci segna per l’unità, e come Cristo è uno e indivisibile, così noi tutti non siamo più che uno in lui. Diceva Egli al Padre celeste: Che essi siano uno come noi siamo uno.   

 

2. Condivisione della vita di fraternità

Del miracolo di questo modo di vivere uniti abbiamo bisogno noi, per crescere nella fede con convinzione e maturità personale sempre più grande; ma ha sempre più bisogno anche il mondo contemporaneo.

Siamo chiamati ad obbedire a Dio, cioè a comprendere cosa Egli ci chiede attraverso le condizioni dentro le quali si svolge la nostra vita cristiana. Ora – si legge nella Spe salvi – il mondo moderno, l’ateismo moderno, è caratterizzato dalla «protesta contro Dio». Essa è una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale: un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono. Il Dio che avesse la responsabilità di un simile mondo, non sarebbe un Dio giusto e ancor meno un Dio buono. È in nome della morale che bisogna contestare questo Dio.

Ed ecco la conseguenza che ne è stata tratta: poiché non c’è un Dio che crea giustizia, sembra che l’uomo stesso ora sia chiamato a stabilire la giustizia. Da qui la pretesa che l’umanità possa e debba fare ciò che nessun Dio ha fatto, né è in grado di fare.

Ma noi crediamo che è nel Crocifisso che Dio rivela il suo Volto proprio nella figura del sofferente che condivide la condizione dell’uomo abbandonato da Dio, prendendola su di sé. Questo sofferente innocente è diventato speranza-certezza: Dio c’è, e Dio sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire. Sì, esiste la risurrezione della carne. Esiste una giustizia. Esiste la “revoca” della sofferenza passata, la riparazione che ristabilisce il diritto.

La Chiesa, essendo quella compagnia umana che afferma di continuare nella storia la presenza di Cristo Risorto è chiamata oggi, dunque, più che mai a testimoniare la Sua vittoria sul male e sulla morte in quell’unità nuova, che nasce dal mistero della comunione cristiana, fatta dalla potenza dello Spirito.

San Massimo descriveva mirabilmente questo miracolo dell’unità ecclesiale:

Uomini, donne, fanciulli, profondamente divisi riguardo alla razza, la nazione, la lingua, il genere di vita, il lavoro, la scienza, la dignità, la fortuna… Tutti essa ricrea nello Spirito. A tutti ugualmente imprime una forma divina. Tutti ricevono da lei una natura unica, che non si può rompere, una natura che non permette più, ormai, che si tengano da conto le molteplici e profonde differenze di cui fan mostra. Per questo tutti sono elevati e uniti in modo veramente cattolico. In essa nessuno è minimamente separato dalla comunità, tutti si fondono, per così dire, gli uni negli altri, per mezzo della forza semplice e indivisibile della fede… Cristo è anche tutto in tutti, egli che tutto rinchiude in sé secondo la potenza unica, infinita sapientissima della sua bontà, – come in un centro in cui convergono le linee, – affinché le creature del Dio unico non restino estranee o nemiche le une con le altre, non avendo un luogo comune dove manifestare la loro amicizia e la loro pace.

Di fronte ai fallimentari tentativi umani di stabilire fra gli uomini una convivenza giusta e pacifica, si erige la Chiesa come motivo di speranza e di unità già in atto fra uomini e popoli di diverse razze e culture, questo popolo “sui generis” che ha per fondamento la parola di Cristo e per cemento unificante la grazia che viene dal Suo sangue.

Il grande teologo francese Henri De Lubac aveva fatto notare che:

Fuori del cristianesimo niente arriva al Termine, all’unico Termine a cui tendono, senza saperlo, tutti i desideri umani, tutti gli sforzi umani, e che è l’abbraccio di Dio in Cristo. I più belli e i più potenti di questi sforzi hanno dunque assolutamente bisogno d’essere fecondati dal Cristianesimo per produrre il loro frutto d’eternità, e finché manca loro il cristianesimo, nonostante apparenze a lungo contrarie, non fanno che scavare nell’umanità il vuoto dove si innalzerà il grido verso la sola Plenitudine, e rivelarle più fortemente la schiavitù da cui essa tenterà le braccia verso il Liberatore.

Similmente fuori della Chiesa l’umanità tenta di riunire le sue membra. Da millenni un istinto potente la spinge, attraverso un caos apparente di dispersioni e di incontri, d’urti e d’avventure, di costruzioni e di disgregazioni sociali, verso una «vita comune» che faccia tralucere al di fuori qualche cosa di quella unità che oscuramente sente in sé. Ma – e dobbiamo constatarlo troppo spesso – essa non può venire a capo di tutte le forze di opposizione che sono ovunque all’opera, e che essa stessa genera e rianima perpetuamente. Senza cessare di essere chiuse le città si dilatano, non si penetrano che per meglio urtarsi, e in seno alla loro coesione interna persiste l’ostilità delle anime. Ma ecco la divina Casa costruita sulla roccia, «nella quale – secondo la felice formula del Concilio Vaticano – come nella dimora del Dio Vivente, i fedeli vengono uniti da un solo vincolo di fede e di carità». Ecco la casa delle nozze, ove il cielo si unisce alla terra: Ecco la casa di famiglia ove tutti si riuniscono per mangiare l’Agnello, ecco il luogo del vero sacrificio! Solo l’Ideale che Cristo ha trasmesso alla Chiesa è tanto puro, e tanto potente – non è infatti forgiato dal cervello dell’uomo, ma è vivo e si chiama lo Spirito di Cristo – da ispirare gli uomini a lavorare per la unità spirituale, come soltanto il Sacrificio del suo Sangue può dare efficacia al loro lavoro.

Il mondo, dunque, e noi stessi abbiamo bisogno del miracolo della comunione ecclesiale per poter credere nella presenza di Cristo Risorto, vivo e operante nella storia, cioè per potervi credere in modo ragionevole.

Da dove nasce questa unità che glorifica la presenza del Risorto nel mondo?

Il fatto di riconoscerci come fratelli nasce dalla fede in un Dio che è padre di tutti. A partire da questa fede potrò riconoscere l’altro e dire, come Francesco: “Il Signore mi diede dei fratelli”. La relazione fraterna non nasce anzitutto dalla nostra buona volontà o dalle nostre virtù, ma dal dono di Dio.

Don Massimo Camisasca, parlando della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di “S. Carlo Borromeo”, di cui egli è fondatore ha scritto:


Quando osservo la Fraternità, uno degli aspetti che più mi sorprende è la varietà dei volti, dei temperamenti, delle storie personali di chi ne fa parte. L’opera di Cristo non è mai generica: egli ha voluto chiamare assieme persone con volti e nomi precisi. È lui il protagonista della storia di ciascuno di noi: l’ha costellata di piccoli e grandi miracoli, le sue iniziative, e attraverso di essi ha determinato il nostro essere assieme.

Perché, dunque, Cristo ha chiamato assieme a me questa, quella, quell’altra persona? Perché, conoscendo loro, io possa conoscere Lui. La storia dei miei fratelli entra nella mia storia personale con una imponenza, con un peso, con una invadenza, con una «pretesa» che non posso dimenticare o tralasciare. Basta che una persona nuova entri nella nostra comunità, che tutto è chiamato a cambiare. La storia e, ancor più, la personalità di ciascuno, non soltanto il bene, ma anche il male e il dolore che egli vi porta diventano, nella comunione che viviamo, la strada privilegiata della nostra conoscenza di Cristo.

In conseguenza di questa esperienza, noi non siamo più estranei gli uni agli altri. San Paolo lo afferma riguardo a tutti i cristiani (cfr. Ff 4,4-6), ma ciò vale in modo speciale per coloro che Dio chiama a seguirlo nella stessa compagnia vocazionale. Inizialmente, ci si può sentire non estranei, ma vicini, anche semplicemente in forza di una simpatia. È un primo livello nel rapporto fra noi, il più superficiale, che può durare mesi, forse anche anni in talune relazioni, ma, a poco a poco, deve cedere il posto a una responsabilità reciproca. Questa responsabilità ha le caratteristiche della carità descritte da san Paolo (cfr. 1Cor 13,4-7) ed è chiamata a crescere, percorrendo un itinerario molto delicato.

Anzitutto l’altro deve essere rispettato: nessuno può penetrare nella vita di un altro, pretendendo per esempio da lui una certa confidenza o vicinanza. Ogni persona è unica e porta nella vita degli altri il suo mondo, la sua sensibilità, la sua storia, le sue grandezze e i suoi limiti. Il rapporto con l’altro esige, perciò, sempre un’attenzione specifica, particolare, ed è facilissimo commettere errori.

Il fratello che vive con me dovrà avere la libertà di pronunciarsi quando è necessario e dire, per esempio: «Guarda, non ho capito questa cosa, mi ha dato fastidio quest’altra, perché ti sei espresso così?». Ma non tutto deve essere detto. La responsabilità reciproca, infatti, salvaguarda anche la discrezione: «Non rivelare tutto a tutti», dice la Bibbia (cfr. Sir 8,19). L’attenzione reciproca fa sì che la convivenza sia il più possibile costruttiva.

Per vivere questo rispetto è necessario scoprire e riscoprire continuamente che Cristo non mi ha voluto assieme a un generico gruppo di individui, ma ha inserito la mia vita in un intreccio di storie personali specifiche, che sono la materia della costruzione della nostra casa comune.

Questo «noi» non generico, in cui tutto entra a costruire come pietra l’unità della casa, è l’«io» unico che nasce dal battesimo. Ecco perché diventa possibile ciò che in genere non è possibile tra gli uomini: perché noi siamo già una cosa sola. Altrimenti, l’unità di tante diversità in una costruzione comune sarebbe la più tragica delle illusioni. Il nostro tentativo non è utopico, ma realistico, perché non fa altro che portare in luce qualcosa che già siamo. Ciò che già siamo e su cui si basa la nostra costruzione comune è l’appartenenza a Cristo: «Tutti voi siete uno in Cristo Gesù», dice san Paolo (Gal 3,28).

S. Agostino si rivolgeva così ai nuovi battezzati:

Vi si dice: Il Corpo di Cristo. E rispondete: Amen. Siate dunque membra del corpo del Cristo, perché sia vero il vostro Amen. –E perché questo mistero è fatto col pane? –Non diciamo niente di nostro. Ascoltiamo l’Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: «Siamo tutti, noi numerosi, un solo corpo, un solo pane». Comprendete e rallegratevi. Unità, pietà, carità! Un solo pane: e che è questo pane unico? – Un solo corpo, fatto di molti. Pensate che il pane non si fa con un sol chicco, ma con un gran numero. Durante gli esorcismi, eravate in qualche maniera sotto la mola. Al battesimo siete stati imbevuti d’acqua. Lo Spirito Santo è venuto allora in voi come il fuoco che cuoce la pasta: Siate dunque ciò che vedete e ricevete ciò che siete.

Quanto al calice, fratelli miei, ricordatevi come si fa il vino. Molti chicchi pendono dal grappolo, ma il liquore che sgorga da tutti si confonde nell’unità. Così il Signore ha voluto che noi Gli apparteniamo, e ha consacrato nel suo altare il mistero della nostra pace e della nostra unità.

L’Eucarestia, dunque, è segno efficace della vittoria di Cristo, perché dimostra il potere che Cristo ha di assimilare a sé tutte le cose: il pane e il vino, infatti, vengono cambiati nel suo corpo e nel suo sangue. Ma anche i fedeli che lo accolgono nel pane e nel vino vengono assimilati a Lui e resi un solo corpo, uno solo in Lui.

L’unità che ne nasce non è quella che può unire gli uomini in una aspirazione comune al bene, alla pace, alla giustizia o alla felicità. Non è l’unità che viene dal desiderio di qualcosa che è ancora assente; ma è l’unità che si fa in forza di una presenza operante ed efficace. La carità di Cristo ci unisce al di là della nostra miseria, che spesso adduciamo come ostacolo per giustificare una divisione fra di noi. La carità di Cristo è come un fiume in piena che abbatte di schianto le nostre resistenze.

 

3. Condivisione della vita di Evangelizzazione

La missione assume oggi il volto del dialogo. L’atteggiamento dialogante e la pratica del dialogo si esprimono, anzitutto, all’interno della nostra vita fraterna: non potremo parlare con il mondo se non saremo capaci di intavolare un dialogo tra di noi, alla luce della verità della fede, e se non siamo capaci di dialogare intimamente con il Dio che si rivela.

La passione per Cristo, se è vera, diviene quotidiana, cioè la ragione di tutta la vita, e perciò si esprime innanzitutto con chi ci sta più accanto. E non è vero che prima bisogna diventare amici per arrivare a comunicare fino alla profondità di noi stessi, anzi è solo arrivando alle questioni essenziali per noi e quindi per loro che si diventa amici

San Francesco d’Assisi ci ha lasciato un segno di relazione che oggi ha assunto una attualità insospettata: il suo dialogo con il Sultano, proprio in un contesto di grave tensione come il nostro. Francesco era motivato soprattutto dalla fede in Dio, ma allo stesso tempo manifesta anche una notevole fiducia umana e un atteggiamento di ascolto di fronte al Sultano.

Ecco, il dialogo cristiano è caratterizzato dalla fede in Dio e dalla fiducia nel cuore dell’uomo, e proprio perché Francesco era motivato da queste, egli non ha esitato ad annunziare al Sultano subito il Vangelo, come troviamo raccontato in molti brani delle Fonti Francescane, e tra questi nella Leggenda minore:

Tre volte per tale cagione, egli intraprese il cammino verso i paesi degli infedeli; ma le prime due volte ne fu impedito per disposizione divina. Finalmente la terza volta, dopo aver provato molti oltraggi, catene, percosse e fatiche innumerevoli, con la guida di Dio venne condotto al cospetto del Soldano di Babilonia: là  predicò il Vangelo di Cristo, con una  manifestazione così efficace di spirito e di potenza che lo stesso Soldano ne fu ammirato e, diventato mansueto per divina disposizione, lo ascoltò con benevolenza.

In realtà, egli notò in lui fervore di spirito, costanza d’animo, disprezzo della vita presente, efficaci nella Parola di Dio e concepì verso di lui tanta devozione che lo stimò degno di molto onore, gli offrì doni preziosi e lo invitò insistentemente a prolungare il soggiorno presso di lui.

Nella evangelizzazione oggi più che mai dobbiamo tener presente quanto ebbe a scrivere l’allora cardinale Ratzinger: “Se si osserva l’attuale situazione nella “storia dello spirito”, […] deve addirittura apparire un miracolo che nonostante tutto si continui a credere cristianamente […] con la fede piena e gioiosa del Nuovo testamento, della Chiesa di tutti i tempi. Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo? Direi perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. […] Nell’uomo vi è un’inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo. Il nostro compito è quello di servire a lui con umile coraggio, con tutta la forza del nostro cuore



J. RATZINGER, Fede, verità e tolleranza, Catagalli, Siena 2005

Commenti

iscriviti al nostro canale

iscriviti al nostro canale
Chiesa Madre Francofonte

Visita la nostra pagina

Visita la nostra pagina
Chiesa Madre Francofonte